La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina: l’arte del fallimento

Data di pubblicazione
1 maggio 2025
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In appena tre mesi, Donald Trump ha stravolto l’ordine geopolitico installatosi dopo il 1945, inferto un durissimo colpo al regime commerciale globale, minato la credibilità della politica economica statunitense (indipendenza della Federal Reserve, salvaguardie fiscali) e messo a dura prova i limiti del potere esecutivo sulle politiche di immigrazione, minacciando una crisi costituzionale. A parte il crollo dei flussi di immigrazione (iniziato a metà 2024), la tempesta politica ha sortito pochi effetti. Sul fronte geopolitico, la guerra continua a imperversare a Gaza come in Ucraina, la rotta del Mar Rosso è ancora preclusa e l’Iran continua ad arricchire l’uranio. Sul fronte economico interno, il disavanzo fiscale continua a lievitare mentre i sondaggi evidenziano un crollo della fiducia dei consumatori e delle imprese1. Sui mercati finanziari, azioni, obbligazioni e dollaro sono tutti in flessione, invertendo pericolosamente la normale correlazione che dovrebbe prevalere a favore della valuta di riserva globale.

La deblacle dei mercati ha costretto Trump a sospendere l’entrata in vigore di buona parte dei dazi ‘reciproci’. I bond vigilantes hanno svelato il bluff di Trump e hanno vinto. Sono tuttavia rimasti i dazi del 145% sulla Cina e il Presidente Xi sta testando la determinazione di Trump a mantenere l’embargo commerciale inflitto de facto al paese. Tuttavia il presidente statunitense sembra avere fatto male i calcoli sulla sua forza contrattuale.

In quella che si prefigura come un’autentica dichiarazione di guerra economica, Trump ritiene di avere il coltello dalla parte del manico perché gli Stati Uniti sono “un negozio bellissimo dove tutti vogliono fare acquisti”. “L’errore più grande in guerra è sottovalutare il proprio avversario”, scriveva Sun Tzu nel classico cinese L’Arte della guerra, ed è quello che sembra fare l’autore dell’Arte di fare affari.

Posso concedere che sulla carta sia la Cina la controparte perdente di questo embargo commerciale reciproco. Le sue esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentano circa il 3,4% del PIL (in valore aggiunto e tenuto conto delle merci che plausibilmente transitano tramite paesi terzi), rispetto ad appena l’1,0% di quelle statunitensi verso la Cina2. Tuttavia il tallone d’Achille degli Stati Uniti è rappresentato dal potere di determinazione dei prezzi degli esportatori cinesi.

Nel settore dei beni di consumo (il 44% delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti), la Cina rappresenta il 30% delle importazioni USA, con posizioni dominanti in una serie di prodotti come laptop (78%), smartphone (76%), giocattoli (66%) e calzature (58%)3. Calcolando il margine aggiunto della distribuzione, il marketing e la vendita al dettaglio, le merci ‘made in China’ costituiscono circa il 14% del totale dei beni consumati negli Stati Uniti, esclusi alimentari ed energia4. Se dovessero essere applicati i dazi del 145%, si rischia uno stop improvviso di queste importazioni verso gli Stati Uniti (ne abbiamo visto un assaggio nell’attuale crollo delle spedizioni via container nella rotta Cina-USA) e un aumento non lineare dei prezzi al dettaglio, accompagnato da penurie come ai tempi del Covid.

Nel settore dei semilavorati, il ruolo centrale della Cina è ancora più palese. Il paese asiatico rappresenta il 40% della produzione globale5 e, secondo Richard Baldwin della IMD Business School, è direttamente o indirettamente il primo fornitore estero di tutti i settori manifatturieri statunitensi ad eccezione del farmaceutico, rappresentando in media il 3,5% dei beni intermedi totali (compresi quelli prodotti internamente)6, una percentuale tre volte superiore rispetto alle esportazioni USA di semilavorati per il settore manifatturiero cinese. Andando più nel dettaglio, la Cina detiene pressoché il monopolio in alcuni beni intermedi specifici, come le terre rare lavorate (70-100%), i pannelli solari (90%), le batterie agli ioni di litio (76% della capacità globale), gli API, ingredienti farmaceutici attivi (46% direttamente e attraverso l’India)7. Tutte queste merci sono fondamentali per settori critici come la difesa, l’automotive, l’aviazione, l’aerospaziale e il farmaceutico.

Un semi-embargo degli Stati Uniti sulla Cina causerebbe sicuramente una seconda ondata di inflazione che sarebbe politicamente devastante e la paralisi di quei settori che Trump vuole far risorgere per fini di sicurezza nazionale e coesione sociale. In Cina, il colpo inferto alle esportazioni causerebbe uno shock deflazionistico e l’aumento della disoccupazione, anche se la bilancia delle partite correnti del paese sfiora il pareggio e offrirebbe quindi un prezioso margine di manovra fiscale incamerato da anni. Per ragioni ideologiche, la Cina è sempre stata poco incline a stimolare i consumi interni, ma Trump fornirebbe un perentorio argomento geopolitico per varare simili misure. Negli Stati Uniti invece, il ritorno dell’inflazione impedirebbe alla Fed di tagliare i tassi prima della fine dell’anno, mentre il rialzo dei rendimenti obbligazionari ridurrebbe ulteriormente la capacità di rispondere con stimoli fiscali. Si potrebbe anche aggiungere che conterà molto “la tolleranza al dolore” e una società totalitaria abituata a un costante controllo informatico come quella cinese ha la capacità di sopportare travagli economici più a lungo di una società democratica con un appuntamento elettorale di mid-term.

A parte le supply chain, la Cina ha anche un'altra leva a sua disposizione: quella finanziaria. Il paese ha un “bottino” di circa tremila miliardi di dollari di asset USA liquidi (perlopiù titoli del Tesoro e delle agenzie governative) detenuti attraverso la banca centrale, l’autorità monetaria di Hong Kong Monetary e le grandi banche commerciali statali8. La Cina potrebbe gradualmente scambiare queste posizioni con safe assets non statunitensi (bund, JGB, gilt…) per esercitare una pressione al ribasso sull’USD e sui mercati obbligazionari statunitensi. Ne avrebbe un duplice vantaggio, senza esporsi direttamente. In primo luogo, il tasso di cambio del renminbi sarebbe avvantaggiato dalla svalutazione del dollaro, riguadagnando competitività senza correre il rischio di innescare fughe di capitali attraverso la svalutazione rispetto all’USD o di scatenare le ire di Trump. In secondo luogo, una tale mossa costringerebbe le altre banche centrali del G10 a tagliare i tassi per alleviare la pressione sulle proprie valute, dando più spazio alla PBoC (la banca centrale cinese) per allentare la propria politica monetaria. Per contro, un dollaro debole alimenterebbe pressioni inflazionistiche negli Stati Uniti e l’aumento dei rendimenti obbligazionari restringerebbe lo spazio di manovra fiscale di Trump.

È chiaro che, visto il ruolo cruciale che riveste la Cina negli Stati Uniti, Xi potrebbe spingere Trump verso una guerra economica di logoramento, mentre il Presidente USA sperava in una vittoria lampo. Per un uomo che una volta aveva scritto “se non consegni la merce, la gente alla fine capirà”, la situazione sta diventando decisamente precaria. Forse dovrà presto ammettere la sconfitta.

1Università del Michigan, Consumer Sentiment Survey, aprile 2025. 2Database TiVA OCSE. 3Database UN ComTrade. 4“The US content of ‘Made in China’”, San Francisco Fed. 5Database TiVa OCSE. 6R. Baldwin et al. “Hidden exposure; measuring US supply chain reliance”, Brookings Paper. 7Dichiarazione di Stephen W. Schondelmeyer all’House Ways & Means Committee, febbraio 2024. 8PBoC, HKMA.

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